Quando comperai Rebecca, ricordo ancora il giorno della scelta, anche
perché, benché ci fosse un’offerta assai scarna quel giorno, e si
sarebbe fatto in fretta a valutare ogni schiava in vendita, non valutai
né soppesai nemmeno altre scelte.
Mi colpì subito.
Non solo per la bellezza.
L’aria selvatica, l’odore del suo corpo sudato che superava la distanza
tra l’assito su cui era tenuta dalla catena e me, lì sotto, a terra.
Il corpo nudo, sporco di terra e polvere, lo sguardo di animale
prigioniero con cui sembrava quasi voler sfidare lei la piccola folla
volgare e vociante, che davanti alla pedana di legno su cui era esibita
la merce, si accalcava. Sembrò ai miei occhi una nobile guerriera, non
una serva.
Decisi subito l’acquisto. E feci avvicinare Armida al mercante per
evitare di dovermi piegare al gioco dei rilanci e delle trattative, coi
suoi complici mescolati tra la piccola folla al solo scopo di fare
lievitare il prezzo a dismisura.
Non che ve ne fosse bisogno, di artificiosi e laidi inganni al rialzo:
il mercante ben mi conosceva e, considerandomi un cliente poco disposto
a dare mostra dei suoi acquisti o farsi vedere troppo a lungo in quella
situazione, sovrastimando oltretutto evidentemente, come fa chi vive di
invidia, le mie ricchezze, mi chiese un prezzo che in altre situazioni
avrei addirittura reputato offensivo.
Ma tale era la rabbia per la lontananza di Aminah, e tale e tanto il
desiderio di azzerare in qualche modo la mia stolta generosità con Gaia
e il padre di lei, che al ritorno di Armida a me con lo smisurato
prezzo, incurante della riprovazione nascosta in modo inefficace dalla
vecchia e saggia serva, feci un cenno del capo al mercante.
Accettando senza mercanteggiare un prezzo a cui avrei comprato tre
schiave meno belle o un valente gladiatore, da mettere in campo per dare
lustro alla mia nomea in tutta la città per mesi e mesi. O anni.
Mi allontanai, lasciando ad Armida la piccola sacca di monete d’oro che
avevo portato sotto la tunica per lo scopo, e delegando a lei le
incombenze dello scambio dell’oro con la schiava.
Mi accompagnarono, fin dove riuscii ad udirle, le proteste e il
brontolio degli altri acquirenti che si erano visti sfilare, senza avere
nemmeno avuto modo di fare offerta alcuna, la carta più bella dal già
misero mazzo esibito sull’assito. Risi.
Pensando a come la mia popolarità, dopo gli ultimi discorsi miei in
Senato e le mie ultimissime prese di posizione in materia di pene e
tasse, certo non avrebbe avuto bisogno di questo ulteriore aiuto per
sprofondare ancora un poco verso l’abisso. Armida poi, come ho già avuto
modo di dire, si prese cura subito, a casa, di Rebecca, a cui il nome da
me fu donato, e la rese presentabile, pulita, profumata.
Ebbe ragione dei capelli che si rivelarono splendidi, una volta tagliati
in modo regolare, lavati, liberati da grumi di terra e fango, e
profumati e resi morbidi da resine e olii dall’aroma caldo e mielato. Ne
limò le unghie, che aveva belle e forti ma rotte e troppo lunghe per
vivere tra i civili.
Ne sbiancò con una radice di liquirizia e argilla i denti.
Passò pomice di mare sui suoi piedi, sui calli delle mani, sui gomiti,
ne levigò ogni ansa o promontorio in cui il lavoro e la vita selvatica,
da lei condotta tra i barbari suoi famigli, avessero dimenticato come
debba essere morbido e atto al piacere dello sguardo e delle mani il
corpo di una donna, soprattutto di una schiava.
Quando Armida condusse a me Rebecca ero intento a scrivere una missiva
da inviare al proconsole in Sicilia. Vicino a me stava in piedi Alfio
Decano, il servo.
Il più abile a montare un cavallo tra quelli che vivono nella mia casa,
quello che spesso per questa sua perizia, e la fiducia meritata col suo
passato di legionario, cura da anni le incombenze di fiducia e
tempestività che riguardano i miei scambi epistolari.
Rebecca guardò stupita i segni strani che tracciavo, e fu la prima volta
che colsi nel suo sguardo qualcosa che non fosse sfida e odio.
Era evidente che la sua gente non conosceva la scrittura, così mi venne
idea e voglia di fare un gioco.
Chiamai Armida vicina e le dissi di chiedere a Rebecca il nome di suo
padre, e del suo fratello maggiore, se mai ne avesse uno. Di farseli
dire sottovoce di modo che fosse chiaro alla giovane che io non potessi
sentire alcun suono e conoscerli in alcun modo. Armida ci mise qualche
minuto a farsi capire dalla schiava.
Poi la ragazza chinò il capo verso l’orecchio della vecchia donna di
casa e sussurrò - e numi, era bellissima, e sembrava una bambina in quel
suo stare immediatamente al piccolo gioco che non capiva ma aveva
intuito essere tale – all’orecchio di Armida qualche cosa.
Chiamai Armida, che aveva le rughe del viso rinforzate e accentuate dal
sorriso, gli occhi intelligenti che le ridevano, quasi fino ad azzerarne
l’età e farla ritornare giovane e bella, alla tavola e le porsi di che
scrivere. Le chiesi di scrivere i due nomi o quanto meno le lettere
corrispondenti al loro suono.
Armida, con scrittura un poco incerta, tracciò due nomi, scrivendoli
come si sarebbero scritti se fossero stati latini, erano un miscuglio di
lettere che nella nostra scrittura non avevano significato, ma
permettevano di essere riprodotti come suono.
Le feci cenno di portare assai vicina Rebecca, che non aveva allentato
un attimo solo lo sguardo da ciò che la mia vecchia schiava aveva
compiuto sul foglio spianato. Lo sguardo di Rebecca valeva tutto il
gioco.
Ma fu quando presi in mano il foglio scritto da Armida e dopo una pausa
esagerata e assai teatrale, le lessi i nomi del padre e del fratello,
senza nemmeno io sapere io però, in verità, cosa leggevo, che gli occhi
di Rebecca si aprirono come fiori. Grandissimi e di una bellezza
infantile e sconvolgente.
Indimenticabile lo stupore che vi colsi, non li avevo abbandonati un
attimo solo coi miei.
Stupore e poi quasi paura. O quanto meno reverenza.
Io risi e risero Armida e Alfio Decano.
Rebecca ci guardò in modo interrogativo, con un misto di emozioni che
trasparivano impudiche, indifese e nude dal suo bel viso.
Fu così che Rebecca conobbe la magia. Della scrittura.
La sua intelligenza, e le pazienti e difficili spiegazioni in una lingua
che lei padroneggiava assai poco, le fecero capire che quell’esclamazione,
che tradotta in latino avrebbe significato “Dio”, con cui mi aveva
chiamato, quando aveva sentito dalla mia voce i nomi dei suoi parenti
che mai mi aveva detto, era quanto meno esagerata.
Il giorno dopo Armida, con pazienza che le conosco da una vita, su
richiesta mia, anticipata da Rebecca stessa, aveva cominciato le sue
piccole lezioni di scrittura.
Ed è per questo che non posso non stringere e baciare, divertito ed
emozionato, Rebecca ora.
Ha sfilato la veste, è nuda.
E bellissima, una statua di carne temperata da una vita sana e senza
vizio o ozio alcuno. Ha i capelli acconciati e legati in una piccola
palla scura, due bacchette di avorio tengono salda l’acconciatura e
offrono nudi collo e nuca.
Sul seno ha dei segni, incerti. Sulle coppe, sopra i capezzoli scuri e
grinzosi che così tanto amano possedere le mie labbra, le mie mani, le
mie dita e i miei denti.
Su ambo i seni, nel loro gonfiarsi di donna, asimmetrico, imperfetto
eppure riconoscibile senza dubbio alcuno spicca il mio nome.
Scritto da lei, davanti allo specchio, alla rovescia, con mano resa
ancor meno sicura dal capovolgersi dell’immagine. Riflessa, dal
foglietto scritto da Armida e che lei serba appallottolato nella mano,
stretta lungo il fianco dalla tensione. Si lascia guardare, gli occhi le
si abbassano, la mano che regge il modello da cui ha copiato lettera per
lettera è bianca dalla forza e agitazione con cui lo serra. Quasi avesse
paura che la scritta di Armida avesse potuto tradirla se l’avesse
lasciata libera di respirarle dentro il palmo.
Mi sono voltato. A lato.
Dopo aver sorriso.
Perché non è bello e dignitoso che una schiava veda una lacrima lucida.
Tentennare incerta se evaporare negandosi, o liberarsi del tutto e
scivolare.
Negli occhi del padrone, di un uomo della mia età e del mio ruolo.
Un Senatore dell’Impero.
Mi resta il dubbio, nel suo leccarmi gli occhi mentre la prendo, e la
sovrasto, il sesso piantato nel suo accogliente ventre. Fermo,
attendendo che lei cominci ad agitarsi, sinuosa e ansimante, per
svuotarmi e goderne, facendomi godere del suo stringermi ritmato dalle
onde sue, lì dentro.
Mi ha leccato gli occhi.
Avrà trovato il sale della lacrima che ho negato ai suoi, girandomi.
La scritta sul suo seno si è stinta contro il mio petto, sfregandolo. Lo
vedo adesso, resta una macchia appena più scura della sua stessa carne,
non più che il calco di lettere imperfette.
Lo vedo sollevandomi da lei, inarcato sulle reni, affondando in lei fin
dove riesco, mentre inizio a riempirle di seme caldo il ventre.
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